Progetto Sardegna, il piano di rinascita del dopoguerra

In che situazione versava la Sardegna negli anni del dopoguerra? Che tipo di interventi hanno fatto sì che la situazione lavorativa migliorasse e si creassero dei veri e propri processi che avrebbero fatto da antesignani.

L’OECE, Organizzazione Europea di Cooperazione Economica fu istituita il 16 aprile del 1948 per coordinare e controllare la distribuzione degli aiuti statunitensi del Piano Marshall con lo scopo di incrementare la collaborazione tra gli stati, sviluppare piani nazionali di ricostruzione, incrementare gli scambi internazionali e raggiungere migliori condizioni di lavoro. Tra i progetti sorti vi è il “Progetto Sardegna” che si orientava per uno sviluppo endogeno di una delle zone più disagiate dell’isola e si inseriva in un vasto progetto denominato “Progetto Sperimentale 400” portato avanti negli anni 1957-61.

Il Progetto Sardegna aveva come centro di interesse la comunità quale elemento imprescindibile per lo sviluppo economico in quanto detentrice di saperi materiali e culturali essenziali per lo sviluppo locale. I valori della ruralità erano elemento fondante delle attività che dovevano essere potenziate, perciò era necessario lavorare per promuovere l’innovazione tecnologica nel settore agro-pastorale e favorire le cooperative di agricoltori in modo che si potessero mettere in opera modalità di produzione innovativa. Questa era una grande sfida, dice Meloni,[1] infatti l’isola presentava caratteristiche differenti da altri contesti italiani, ma la sfida fu proprio quella di mettere in moto le forze endogene latenti, valorizzare il tessuto connettivo dell’attività economica, attraverso quello che oggi si potrebbe definire processo di empowerment.

Fase operativa

Nella fase operativa principale il progetto venne dotato di un importante organigramma che potesse permettere di utilizzare risorse umane e materiali con un’assistenza tecnica coniugata per la formazione, garantendo così un uso ottimale delle risorse esistenti. I soggetti della comunità che vennero chiamati in causa come attori erano loro stessi protagonisti del processo. Alcuni effetti di questo sono ancora visibili nelle zone del Montiferru, più precisamente e Santulussurgiu, dove è ancora presente la Cooperativa delle Tessitrici che è stata la prima Cooperativa femminile più grande d’Europa e ha permesso di combattere la disoccupazione delle donne, limitando la forte emigrazione e favorendo lo sviluppo e la crescita dell’artigianato tradizionale. Ancora adesso alcune fondatrici ricordano con entusiasmo quel periodo, loro infatti poterono migliorare le tecniche grazie anche a degli scambi internazionali in altri Paesi europei e la loro formazione si completava secondo un metodo innovativo per quel tempo, ogni mattina alla radio seguivano trasmissioni utili per il loro lavoro, quello che oggi chiamiamo “tutorial”.

Un’altra importante azione fu quella dell’UNLA (Unione Nazionali per la Lotta contro l’Analfabetismo) di Santulussurgiu. Questo centro permetteva una diffusione culturale caratterizzandosi però non solo come organo di diffusione ma anche come organo di elaborazione di contenuti. Secondo Antonio Pigliaru lo sviluppo autonomo della comunità per realizzarsi ha bisogno che si eliminino gli ostacoli presenti nelle strutture. Per questo per lui l’autonomia significava riforma della struttura e azione concreta di riforma dei rapporti reali. Il Centro infatti riuscì ad apportare cambiamenti in questo senso.

[1] Anna Anfossi “Socialità e organizzazione in Sardegna Studio sulla zona di Oristano-Bosa-Macomer” CUEC Editrice, luglio 2008

Romina Deriu “Saperi e attori sociali in contesti euro-mediterranei” Franco Angeli 2006

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